ROMA. Roberto Calari, presidente dell’Alleanza Cooperative Italiane Comunicazione e presidente di Mediacoop aderente a Legacoop è uno dei protagonisti della campagna di comunicazione “Meno giornali. Meno liberi”. Ha risposto alle nostre domande.
Il Milleproroghe non ha recepito l’appello di oltre 200 testate quotidiane e non profit che hanno chiesto di affrontare con urgenza il ripristino delle risorse per il 2014, mentre per il 2015 il Fondo per l’editoria non accenna ad alcuna risorsa. Ora in quale situazione siamo?
Insieme a Mediacoop non ci sono soltanto altre 8 associazioni e sindacati di editori, giornalisti e poligrafici ma ora si sono aggiunti sindacati degli edicolanti, tutti e tre i sindacati dei poligrafici e Arci, prima fra le associazioni ricreative e culturali e altre si aggregheranno. Tutte queste realtà si stanno rivolgendo al Governo e al Parlamento comprendendo le difficoltà del Paese, ma senza negare che dopo il taglio retroattivo (per il 2013) del Fondo dell’editoria e dopo il ritiro degli emendamenti presentati da un gruppo di parlamentari trasversali ai diversi schieramenti politici nella legge di stabilità e nel Milleproroghe è prevalso un impegno solo generico di finanziamento. Solo che senza alcuna certezza gli editori cooperativi e non profit dovranno chiudere i bilanci con passivi così vistosi da rendere impossibile la continuazione delle pubblicazioni. Per arrivare “vivi” alla agognata riforma dell’editoria serve comunque una soluzione “ponte” che renda possibile una soluzione sia pure provvisoria. Tra l’altro la perdita nel corso del 2015 di circa 3 mila posti di lavoro non solo inciderebbe molto pericolosamente sugli istituti previdenziali di Inpgi e Inps ma come ormai certo produrrebbe conseguenze la chiusura di centinaia di edicole che, non dimentichiamolo, sono passate dalle 43 mila del 2000 alle 30 mila del 2014. Molto opportunamente i sindacati degli edicolanti si sono avvicinati alla nostra iniziativa e i sindacati dei poligrafici hanno avvertito anche il rischio che alcune decine di aziende grafiche e tipografiche entrino in gravi crisi aziendali per la mancata pubblicazione di giornali e di periodici.
Perché reputa necessario un sostegno di Stato a questo tipo di imprese editoriali?
Un intervento pubblico all’editoria cooperativa e no profit non è uno scandalo ma una prassi introdotta fin dal 1990 con un provvedimento legislativo, non un sotterfugio. Misure di sostegno dello Stato ci sono in molti Paesi d’Europa, magari non nelle forme dirette ma sicuramente dal punto di vista quantitativo con risorse anche superiori a quelle erogate in Italia negli ultimi anni. La ricchezza di voci giornalistiche di quotidiani e periodici nelle edicole, in abbonamento, nelle versioni on line sono una dimensione della democrazia che è un aspetto fondante previsto dall’articolo 21 della Costituzione. Questi giornali lottano per bilanci in pareggio, non giocano ai profitti perché quasi tutti svolgono fra le oltre 200 testate ad un ruolo di servizio all’opinione pubblica: rappresentano territori, idee, esperienze. La democrazia non è un lusso. Non può certo essere il mero dato di mercato l’unico indicatore per regolare il pluralismo. Con questo criterio possiamo abolire la spesa pubblica…ognuno farà come potrà. Non è giusto e ovviamente non è una valutazione che esprime solo Mediacoop. Abolire la piccola editoria cooperativa e no profit vuole dire negare racconti plurali di territori, tornare ai monopoli di grandi gruppi privati, negare sostegno a minoranze linguistiche e religiose che hanno stretto patti e riconoscimenti con lo Stato repubblicano e vogliono esprimersi anche sul terreno dell’informazione.
C’è una parte di settori dell’opinione pubblica e un progetto di legge del Movimento 5 Stelle che chiede l’abolizione di ogni sorta di contributo pubblico all’editoria di ogni forma…
Queste posizioni sembrano ignorare quanto di vitale esiste sul terreno delle esperienze di cooperative di giornalisti e poligrafici che hanno dovuto scegliere fra disoccupazione oppure una via imprenditoriale associata e lo stesso discorso in altre forme riguarda l’editoria no profit che se è vero raccoglie molti settimanali e mensili cattolici è una delle palestre più attive per avviare tanti giovani al mestiere dei giornalismi e della comunicazione. Fra l’altro anche nel leggere alcune battute nel dibattito sui social avviato dalla nostra campagna “Meno giornali. Meno liberi” ci sono forzature, ricostruzioni dei fatti fantasiose, datazioni immaginarie di privilegi che, se avvenuti, sono stati fermati, giustamente anche per via giudiziaria, nel 2010. Sono comunque sorpreso che i grandi editori, i principali giornali per numero di diffusione e vendita facenti capo a solidi interessi privati stiano ignorando il nostro appello…o lo ritengono non notiziabile. Per fortuna nelle ormai sessanta interviste ai presidenti o a volte ai direttori delle testate che stanno rischiando il rischio di chiudere emerge un’Italia che svolge una funzione sociale di rappresentanza, senza radicalizzazioni o ruoli anti Stato, ma nella piena consapevolezza che meno giornali riducono la libertà di tutti. Del resto le ripetute analisi e valutazioni anche in termini di bilancio delle nostre testate associate confermano che la gestione delle risorse pubbliche nel nostro contesto dei media è trasparente, garantisce buona occupazione, produce bilanci trasparenti e condotti da amministratori onesti. E non è un fatto scontato in questo momento storico caratterizzato da gravi malversazioni.
Si parla da mesi di una convocazione di tutti i soggetti editoriali per una riforma generale…
E’ quello che ha detto in forme pubbliche e private il sottosegretario all’editoria Luca Lotti ed anche i suoi più stretti collaboratori. Per parte nostra dal 4 marzo abbiamo fatto partire un documento indirizzato proprio al Governo votato dalla direzione nazionale di Mediacoop nel quale offriamo un nostro contributo di idee e di proposte per fare decollare una riforma che è urgente e dovrebbe prevedere un nuovo fondo per l’informazione e la libertà dell’informazione nel quale si andrà verso una visione multipiattaforma e multimediale della risorsa informativa. Non si può tergiversare perché siamo in profondo ritardo e le sofferenze delle aziende sono insopportabili.
Parlate anche di uno sfondo europeo per collocare questa riforma?
Assolutamente sì perché siamo riusciti, sia pure in forme sintetiche, a trovare come in molti Paesi dell’Unione Europea ci sono contributi diretti e indiretti dello Stato che offrono sostegno addirittura alla nascita di nuovi strumenti dell’informazione come beni pubblici e non come una sorta di regalìa della vergogna. La riduzione dei fondi in Italia dal 2007 al 2013 è stata sconcertante per la sua imponenza e non gradualità fino ad arrivare ai 23 milioni di euro nella legge di stabilità 2015 ma previsti per il 2014…la metà del 2013. E’ un colpo grave per la gestione di qualsiasi società. La retroattività fa chiudere i bilanci in rosso e lesiona gravemente il rapporto con il mondo del credito già così poco generoso con il mondo dei giornali e dei periodici.
Non sarebbe necessario una nuova articolazione di incentivi nelle diverse Regioni?
Sta avvenendo, è già avvenuto, ma questo non può sostituire il Fondo nazionale, del resto in Italia il settore della comunicazione è stato in crescita per quindici anni, il problema è come trovare risorse aggiuntive nei campi delle nuove tecnologie e nei processi di diffusione della formazione ai nuovi saperi, all’uso intelligente degli strumenti della nuova comunicazione. Abbiamo bisogno di capire quanto l’Italia voglia fare davvero per ampliare, non per diminuire l’occupazione nei settori chiave per lo sviluppo del futuro.
Il mercato pubblicitario è in sofferenza negli ultimi anni, ma ha comunque premiato le concentrazioni oligopolistiche e la pubblicità va innanzitutto al duopolio Rai-Mediaset e poi ai cinque gruppi editoriali più forti nei settori del libro e della carta stampata…
E’ questo un dato su cui la politica democratica deve interrogarsi e non restare silente. L’editoria soffre la riduzione degli introiti della pubblicità che indeboliscono il settore accentuando le contraddizioni accentuate dall’aumento dei costi produttivo e del drastico taglio del sostegno pubblico. Il 51 per cento dei ricavi pubblicitari è appannaggio dell’emittenza televisiva con a capo Rai e Mediaset, il 19,1 per cento va ai quotidiani, il 16,5 invece ai periodici. Fra l’altro i grandi gruppi sono aggressivi anche sul versante della concorrenza cercando spazio nel mercato dei quotidiani locali dimostrando che il mercato non si autoregola mentre serve una visione pubblica dei problemi capace di tutelare il pluralismo ed anche una diversa regolamentazione dei tetti pubblicitari sui diversi media. E’ l’ultima occasione per tentare di ridurre gravi disparità.