I promotori della campagna #menogiornalimenoliberi continuano a sentirsi ripetere che l’editoria non profit deve essere in grado di sopravvivere “sul mercato”. Nessuno però è in grado di rispondere a questa domanda: chi pagherà per la produzione dei contenuti?
Non sarà la pubblicità online a farlo. Basta un semplice plug-in gratuito, disponibile per tutti i principali browser, per dire basta ad annunci e spot. Sì, anche su Facebook, Youtube e similia. Non farò nomi, ne esistono decine di versioni, più o meno open source.
È l’ennesima riprova di un concetto che è molto chiaro a chi si occupa in modo professionale di informazione: il vero motivo per cui l’editoria online non funziona è che pochissimi lettori digitali intendono pagare per le notizie. Nemmeno nel modo più innocente e, tutto sommato, gratuito: le inserzioni pubblicitarie.
Il 47% dei lettori statunitensi di news online utilizza regolarmente sistemi di ad-blocking automatici. In generale un terzo o più semplicemente ignora gli annunci sui siti.
È una vera e propria “crisi esistenziale” della pubblicità online. Proprio mentre sembra finalmente giunto il momento di gettare le basi per la riforma dell’editoria, questo dato che emerge dal Digital News Report dell’Istituto Reuters pone un interrogativo serio sulla sostenibilità del modello digitale basato sulla vendita dei banner.
In questo momento il modello di innovazione proposto dall’editoria anglosassone è il “native advertising”, cioè articoli scritti su commissione di un inserzionista e presentati come notizie. In questo modo né il lettore né i sistemi di contrasto automatici possono bloccarli. Li utilizzano fior di editori, New York Times in testa.
Credo non si possa fare a meno di aprire un dibattito su questo modello di mercato: ci sono di mezzo la deontologia di un’intera categoria professionale e la fiducia dei lettori.
EMILIO GELOSI
Responsabile Comunicazione e IT Legacoop Romagna
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