Roma 3 marzo 2016 – Editoria. La camera approva la riforma dei contributi: incentivi alla stampa locale e al web. Poche luci e molte ombre nella legge delega targata Pd. Tutto rinviato ai decreti attuativi. Palazzo Chigi deciderà in solitudine i criteri di accesso per le testate e riforma delle pensioni dei giornalisti e del loro ordine.
La camera ha approvato ieri la riforma dell’editoria. La legge delega il governo a ridefinire i contributi diretti alla stampa e alle radio, a riformare l’ordine dei giornalisti, a innalzare l’età pensionabile dei cronisti e restringere le possibilità degli stati di crisi delle imprese editoriali. 292 sì (la maggioranza più Sel), 113 no (Fi e M5S), 29 astenuti (Lega). La legge passa al senato.
Politicamente il grande sconfitto di ieri è il Movimento 5 Stelle, che di fatto è nato sull’abolizione del sostegno pubblico al pluralismo ma una volta entrato nella «scatoletta di tonno» è finito subito in fuori gioco, ripiegando su slogan pieni di errori e superficialità. Basta andarsi a rileggere la dichiarazione di voto in aula di Giuseppe Brescia. Eppure proprio chi ha a cuore la libera informazione non può non cogliere il filo rosso tra le grandi manovre editoriali in atto tra gruppi privati e le mosse pubbliche del governo sul resto dell’editoria.
Il caso «Mondazzoli» insegna.
Perché la riforma approvata ieri alla camera è solo in apparenza una misura di sostegno alla stampa. In realtà è una bomba a orologeria destinata a esplodere nel momento più opportuno in modi diversi.
Sotto il pelo dell’acqua sono in corso da tempo ristrutturazioni industriali inimmaginabili fino a poco tempo fa. La filiera delle notizie (stampa, logistica, distribuzione, raccolta pubblicitaria e vendita in edicola) si accorcia sempre di più, fino ad arrivare a un oligopolio che sembra ormai un monopolio di fatto, come nel più vasto campo librario e culturale.
La riforma (che unisce due proposte di Pd e Sel) è una delega che lascerà al governo ampi margini di intervento con i decreti attuativi. E’ una novità assoluta questa per l’informazione. Il parlamento si è arreso prima di iniziare, rarissimo caso di sintonia totale tra deputati del Pd e Palazzo Chigi (e Ragioneria dello stato).
Nel merito, la legge raccoglie alcune buone proposte del mondo dell’informazione in cooperativa e non-profit. Il «fondo per il pluralismo» è una richiesta storica del movimento.
A regime, questa «scatola» finanziaria che adesso viene istituita presso il Mef (non più a Palazzo Chigi) raccoglierà tutti i vari capitoli di spesa per l’informazione: quello per le radio del Mise (48 milioni), quello per i giornali di Palazzo Chigi (14 mln), fino a 100 milioni del canone Rai per il triennio 2016–2018, lo 0,1% dei fatturati pubblicitari delle grandi imprese. Che già strepitano, anche se facendo di conto lo 0,1% di 7 miliardi (a tanto ammonta questa quota nel Sic 2014 calcolato dall’Agcom) è 7 milioni.
Pochi giorni fa Google da sola ha regalato a 8 editori italiani 1,5 milioni nell’ambito della sua Digital News Initiative.
Stabilita la torta futura, resta il problema, gravissimo, di quest’anno di limbo, dove come ricordava Vincenzo Vita sul manifesto, i fondi previsti sono meno di 20 milioni senza che nulla abbia detto il governo in tutto l’iter a Montecitorio.
E’ però sui criteri di ammissione che la riforma dimostra di vederci benissimo.
Niente più contributi diretti ai giornali di partito come l’Unità (Renzi l’aveva promesso), a quelli sindacali (Conquiste del lavoro della Cisl), a testate controllate da società quotate in borsa (Italia Oggi), «salvi» per tre anni i giornali controllati da fondazioni (Avvenire).
Via anche, ed è qui il busillis, ogni distinzione tra quotidiani locali e nazionali. Come se fosse uguale vendere un giornale da Aosta a Otranto o in cinque province. Su questo punto il Pd è stato irremovibile (favorevoli anche i Cinquestelle).
Con una misteriosa ulteriore asticella del 30% del venduto sulle copie portate in edicola (oggi è il 25%) approvata ieri mattina in un’aula semideserta su proposta del relatore Rampi del Pd senza dibattito né motivazione.
Inaspriti anche tetti e limiti al contributo: non potrà superare il 50% dei ricavi netti e più vendi più vieni rimborsato dallo stato.
L’idea «culturale» dietro alla riforma sembra questa: più sostegno ai quotidiani locali (decisivi per tutte le forze politiche), accompagnamento all’uscita digitale dalle edicole per i pochi giornali
nazionali indipendenti rimasti.
Non a caso, la delega prevede forti incentivi per il passaggio al web.
Su questo fronte la riforma allarga le maglie di accesso: due anni invece di 3 prima di entrare, con l’obbligo per le testate on line di impiegare giornalisti professionisti e offrire «articoli informativi originali» a «utenti unici effettivi». Se tutto questo impedirà le truffe avvenute in passato sui giornali di carta resta da vedere.
Prevista anche una delega in bianco sulla riforma delle pensioni dei giornalisti e del loro ordine.
Dulcis in fundo, tutte le testate che ricevono i contributi non possono ospitare pubblicità «lesiva dell’immagine e del corpo della donna». Come il governo attuerà e vigilerà su questo principio sarà tutto da scoprire.
di Matteo Bartocci
(articolo pubblicato il 3 marzo 2016 su “il manifesto” con il titolo “L’edicola in mano al governo, più fondi ai giornali locali e più vendi più ti pagano”)
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