Leggo con interesse la dichiarazione di intenti contenuta nel Disegno di legge AC n. 3317 “Istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione del sostegno pubblico all’editoria” e, in particolare, un’affermazione condivisibile: “L’opportunità costituita dall’evoluzione tecnologica e dall’avanzata del digitale in ogni caso non può non essere colta dalle imprese editoriali, dato che la maggior parte degli utenti e la quasi totalità dei giovani si sta indirizzando verso diversi modi di accesso e fruizione delle notizie, anche paralleli (si pensi ai social network)”.
Ho la fortuna di rappresentare una Cooperativa, Mandragola Editrice, che ha sempre creduto nell’innovazione e che, in virtù del proprio target di lettori, i giovani, ha investito gioco forza nella multimedialità. Mi sorge spontanea una domanda: se la quasi totalità dei giovani si sta indirizzando alla fruizione delle notizie sui social non dovremo “marcare la differenza” tra giornale “vero” e blog senza giornalisti”, magari educandoli alla fruizione consapevole? Ma questo non è centrale nella discussione, anche se si tratta dei cittadini del futuro, perciò torno all’innovazione.
Le proposte contenute nel Disegno di legge, contengono interessanti (anche se non ancora definiti) incentivi economici per aiutare le nostre imprese nel passaggio al digitale, dando quasi per scontato che sia la nostra ancora di salvezza.
Tutti noi sappiamo, però, che le copie vendute online anche nelle grandi imprese editoriali, generano una percentuale di fatturato irrisoria rispetto a quelle cartacee. L’informazione online è oggi garantita dai ricavi generati dalla carta, nonostante questi ultimi siano in continua contrazione. E domani? La tendenziale diminuzione della diffusione delle copie, e i conseguenti minori ricavi di vendita e advertising, metterà le nostre aziende nella condizione di dover gestire un sistema sempre più complesso online-offline con risorse drammaticamente più esigue. La perdita dei ricavi sulla carta non è e non potrà essere compensata dalla pubblicità su web. La componente advertising su internet sarà verosimilmente una risorsa percentualmente inferiore a quella sinora garantita dalla carta.
Ad esempio, il mensile da noi editato, Zai.net, risulta ai primi posti fra le riviste più scaricate nel settore adolescenti; nonostante questo, il fatturato delle vendite online è irrisorio, meno dell’1% sul complessivo. Decisamente meglio, ma ancora esigui, sono i ricavi relativi alla pubblicità online e ai servizi multimediali (il 5% del fatturato). Da un punto di vista economico puntare su un accesso completamente gratuito alla lettura dell’edizione multimediale del giornale significa fare affidamento esclusivamente sulla pubblicità. Questo modello attualmente non garantisce alcuna sostenibilità. E in prospettiva? Le ipotesi più ottimistiche prevedono un costante aumento della quota di investimento pubblicitario sulla rete, ma ci vorrà molto tempo prima che possa arrivare a garantire un volume sufficiente a coprire, anche solo parzialmente, costi editoriali e d’impresa significativi.
Perché il digital affonda i media e la pubblicità?
E qui vorrei rifarmi a una ricerca australiana di PwC con le previsioni fino al 2018 aggiornate da cui si evince che le aziende non investono in pubblicità. Preferiscono fare comunicazione in proprio. E tagliare i budget per i media tradizionali. Con i social e il digital salta la mediazione dei giornali. I media tradizionali sono alle prese con la frammentazione dell’audience, a causa di social media e digitale, e assistono alla contrazione del proprio lettorato. Un solo esempio delle insidie per i giornali: il 69% delle aziende sta spostando la spesa di marketing dall’acquisto di pubblicità a comunicazione fatta in proprio. E una fetta dal 20 al 30 % del budget per la comunicazione viene investito nella costruzione di canali informativi di proprietà delle aziende/società. Insomma, non si comprano spazi sui giornali.
Senza andare oltre Oceano, ce ne siamo accorti tutti quando inserzionisti storici e persino Enti locali hanno dirottato alcuni investimenti di comunicazione sui canali social o sulle loro pagine fan, con un risparmio di risorse e un risultato tangibile e immediato.
A mio parere, bisogna tenere distinti giornalismo e modello di business. Perché se è vero che il secondo è in crisi, il primo sta vivendo un grande momento di espressione e di circolazione attraverso i diversi supporti e le diverse piattaforme che oggi sono disponibili: nonostante la progressione di Internet i contenuti forniti dai media tradizionali sono ancora insostituibili.
Le notizie originali sono ancora in massima parte prodotte e fatte circolare dalle testate storiche. Non solo, ma la discussione che avviene su web, blog e media sociali, è alimentata in percentuale altissima dalle più consolidate fonti di informazione: l’80% dei link fa riferimento a media tradizionali. Il social “non è un nemico anzi ci aiuta a diffondere i nostri contenuti”. Impegnarsi in questa vera rivoluzione digitale nella quale i contenuti devono essere già pensati per divenire digitali, ha però costi editoriali e d’impresa significativi, ed è qui che la nuova Legge ci dovrebbe sostenere finanziando, ad esempio, piattaforme comuni, premiando le reti virtuose fra le nostre imprese, non genericamente riconoscendo “più soldi a chi già vende di più”.
E, ancora, consentendo l’ingresso nelle Cooperative di giornalisti di un socio finanziatore che possa davvero fare la differenza, garantendo quegli investimenti tecnologici e di formazione per avere redazioni snelle e flessibili con giornalisti che abbiano un buon rapporto con le nuove tecnologie in grado di esprimersi al meglio nella produzione di contenuti multimediali.
Lidia Gattini, Presidente Mandragola Editrice
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