Vi scrivo dalla trincea di Facebook. Viene da sorridere, ma è così. Chi sta seguendo questa campagna sui social network sa che #MenoGiornaliMenoLiberi è una battaglia difficile, perché sostenuta “corpo a corpo”. Senza l’appoggio dei grandi mezzi di informazione, ma direttamente sui territori.
Regione per regione, provincia per provincia, nelle comunità che perderebbero le voci in grado di raccontarle: quotidiani locali, periodici di idee, settimanali cattolici, riviste dalla storia gloriosa che rischiano di essere spazzate via da una incomprensibile politica attendista del Governo.
O forse no: chi lavora sui social può capire fin troppo bene il perché del ritardo con cui Luca Lotti e il Dipartimento dell’Editoria stanno affrontando questa vicenda.
Questa è una battaglia impopolare.
Inutile negarselo, Lotti e Renzi lo sanno perfettamente e lo sappiamo anche noi. Parlando con la gente, per strada e nei social network, ci rendiamo conto che gli abusi e le malversazioni del passato pesano sul dibattito. È un pregiudizio collettivo quello che dobbiamo combattere. Una strada in salita che ci siamo presi la responsabilità di percorrere.
È davvero così, poi? Su Facebook i commenti sconsolanti sono una minoranza rispetto alle manifestazioni di consenso. La proporzione è di dieci a uno. Ogni mille “mi piace”, cioè, abbiamo un centinaio di commenti negativi: interventi disinformati, beceri, maleducati. Sproloqui sgrammaticati, chiassosi, a volte anche divertenti. Eruttazioni che risalgono dal ventre profondo di un’Italia delusa da tutto e da tutti.
Su Twitter, dove il clima è meno “nazionalpopolare”, va pure meglio.
Il team social di #MenoGiornaliMenoLiberi risponde con chiarezza e abbondanza di argomenti razionali.
Un po’ più tese sono le risposte dei giornalisti coinvolti nella battaglia, il cui pathos viscerale rende conto di quanto il problema sia sentito fra le 3.000 persone che non vogliono perdere il lavoro.
Sappiamo tutti però che anche i più impermeabili al confronto vanno compresi, perché la disperazione che scorre nel Paese si coglie, prima di tutto, nelle contraddizioni. C’è n’è una che salta agli occhi dello specialista della comunicazione: Facebook è piena di gente afflitta da un “divide” non solo digitale, profondo e insanabile.
Gente che anche un mercato del lavoro meno bloccato di quello italiano faticherebbe ad assorbire. Gente che però passa il tempo ad affidare ai social network la propria rabbia e speranza di riscatto.
Una falange di sordi tecnologici che si consola facendo telefonate mute.
È la pancia di un paese stufo di tutto e di tutti, che avrebbe bisogno di una formazione al pensiero scientifico, umanistico e informatico. Non di feticci consumistici e retorica delle start-up.
Dividendi politici nazionali? Occasioni di consenso rapido? Di fronte a contraddizioni come queste non ce ne sono. Servono risposte non demagogiche. Anche impopolari, come già ha scelto di fare il Governo in passato su temi che riguardano tutti.
Ecco perché siamo qui a spiegare, tutti insieme e tutti uniti, che le testate no profit di #MenoGiornaliMenoLiberi sono la parte sana di un sistema che va riformato, non abolito. Sono il pezzo di “content providing” della democrazia sui territori e nelle comunità che nessun social network potrà mai sostituire.
Con la stessa responsabilità dobbiamo chiarire al sottosegretario all’Editoria Luca Lotti che senza un suo intervento diretto e rapido – senza una riforma urgente, chiara e trasparente del sistema di sostegno all’editoria – quella parte sana sarà travolta. È questione di giorni, non di mesi.
Anche a costo di un “mi piace” in meno.
Emilio Gelosi
Responsabile Comunicazione e IT Legacoop Romagna
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