Michele Mezza: «Liberi sì, ma non disoccupati»


Dal numero di Zai.net di marzo 2015 una riflessione con Michele Mezza, giornalista, docente universitario ed esperto di sistemi comunicativi digitali. È giusto che i giornali ricevano un aiuto di Stato? Legare i loro destini esclusivamente al mercato limita la libertà d’informazione sancita dalla nostra Costituzione?

michelemezza
Il sistema dei fondi pubblici all’editoria attira da sempre polemiche, e ultimamente alcune forze politiche fanno della cancellazione definitiva un loro cavallo di battaglia: lei come la pensa?

Quella di alcuni partiti è una logica da regolamento di conti: l’abolizione dei fondi va vista di pari passo con la legge liberticida sulla diffamazione, che produrrà ulteriori inibizioni nel campo dell’informazione. Detto questo, certamente non è tutto oro quello che luccica: tra le maglie del finanziamento pubblico all’editoria si sono annidate zavorre che rischiano di portare a fondo tutta la barca. Per lungo tempo alcuni hanno approfittato della situazione, un po’ come si trattasse della “Cassa del Mezzogiorno” della stampa.
In questo senso però sono stati applicati dei correttivi…

Certamente, i provvedimenti degli ultimi anni hanno garantito una maggior trasparenza e hanno tagliato fuori le testate fantasma. Il nucleo del problema è chiedersi se la stampa vada sostenuta con investimenti più o meno a fondo perduto o con una serie di servizi mirati che abbattano vertiginosamente i costi diretti. C’è poi la crisi economica che come una falce abbatte i servizi primari: se la sanità e la scuola sono a rischio, difficile parlare di finanziamento pubblico ai giornali.
E qual è la soluzione?

Sì ai fondi, ma a delle condizioni: prima di tutto il rispetto di alcuni indicatori e poi una progressiva diminuzione dell’intervento statale centrale in favore di quello locale. Per indicatori intendo: contatti, capacità di citazione, accreditamento da parte di altre realtà informative. Insomma, una testata dovrebbe essere pesata per ciò che rappresenta sul suo territorio a tutti i livelli.
In pratica come potrebbe intervenire il livello locale per sostenere le testate? Pensa al crowdfunding?

Penso a forme composite di sostegno in cui la società civile, gli enti e le istituzioni locali possano intervenire. Ad esempio le banche popolari adesso rivoluzionate, così come le fondazioni bancarie, dovrebbero avere come mission quella di sostenere un tessuto culturale informativo. E ancora: perché nessuno ha mai pensato al sistema del 5×1000 per un registro di testate che concorrono alla creazione di un senso comune del Paese? Sarebbe anche meno vincolante dal punto di vista politico: non lo fai decidere a un burocrate se devi vivere o no.
Nel frattempo però il sostegno è sempre minore e la crisi economica si è abbattuta anche in questo settore: lo scorso anno hanno perso il posto 800 giornalisti e 30 testate hanno chiuso. Non costerebbe meno lasciare il fondo piuttosto che pagare gli ammortizzatori sociali?

Il “ricatto” economico funziona fino a un certo punto, data l’autonomia previdenziale dell’INPGI (i giornalisti hanno un sistema pensionistico parallelo all’INPS, ndr); però indubbiamente la chiusura delle piccole testate significa cancellare opportunità di occupazione giovanile – di solito i giovani cominciano dai giornali locali – e intaccare anche tutto l’indotto: persone – grafici, collaboratori, informatici – e consumi culturali. Attorno ad ogni operatore dell’informazione gira un volume economico di un certo peso.
Perché parla di operatori dell’informazione e non di giornalisti?

Farò una riflessione amara e impopolare: io non credo che da qui a dieci anni saranno ancora tanti quelli che saranno pagati per fare informazione nelle modalità tradizionali. Fare informazione non è più un’attività professionale, ma una pratica sociale. Il giornalismo oggi sta esplodendo in altre attività e quello che le imprese editoriali, ma ancor prima i giornalisti, devono fare è capirlo il prima possibile e adattarsi a questo cambiamento epocale. I giornali oggi sono dei centri servizi in cui la pubblicazione dei flussi d’informazione è una sola delle attività, tra l’altro la meno remunerativa.

Quindi cambia anche il modo di fare il giornalismo…

Certo: pensate che negli ultimi 6 anni negli Stati Uniti è stato cancellato il 42% delle posizioni di desk; le persone sono state sostituite da software. Di fronte a questa valanga digitale non si può pensare di accontentarsi di mettere la firma sotto a un pezzo. Il nostro Corriere della Sera è passato nello stesso periodo da 700mila a 260mila copie vendute.

Ma in questo le giovani generazioni possono aiutare ad innovare.

Sì, se si parte dal presupposto che il saper organizzare le informazioni, sapergli dare un linguaggio, sta diventando un’attività ricercata in altri campi che non sono quelli dell’editoria tradizionale. Bisogna rendere giornalistiche altre attività. In fondo, fare un sistema di mobilità intelligente è distribuire informazioni, la telemedicina è informazione, il marketing virale è informazione.

E su questo i software non potranno sostituirci?

Non è questione di sostituzione: chi deve scegliere gli algoritmi di quei software se non chi ha una visione d’insieme e indipendente?
Programmare i software non è compito degli informatici? È qui l’errore! Non bisogna arroccarsi sul pregiudizio che i sistemi intelligenti siano roba da ingegneri o informatici: la tecnologia va governata e noi giornalisti possiamo farlo. Lo hanno già fatto direttori di grandissime testate come il Guardian, il Financial Times o il Washington Post. Solo che lo hanno capito molto prima di noi, che abbiamo un ritardo di quasi dieci anni. La responsabilità, purtroppo devo dirlo, è anche di chi si è riempito con troppa superficialità della parola “libertà”. Sacrosanta e costituzionale la libertà d’informazione, ma al momento è fondamentale preservare l’autonomia di poter esercitare un mestiere, perché l’irruzione di un nuovo alfabeto lo sta trasformando. Altrimenti saremo sì liberi, ma disoccupati.

di Chiara Falcone

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