Luisa Bossa (PD): «No ai tagli al fondo per l’editoria»


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di Geppina Landolfo, dal Roma di Napolidel 26/2/2015
Napoli. È stata sindaco di Ercolano dal 1995 al 2005, ottenendo dall’Unicef il riconoscimento di “Sindaco difensore dei bambini”. Ha promosso il Patto Territoriale del Miglio d’Oro per lo sviluppo e la valorizzazione dell’area vesuviana costiera. Già presidente della Comunità del Parco Nazionale del Vesuvio. Membro del Comitato interministeriale per i diritti umani presso il Ministero degli Affari esteri. Consigliere regionale della Campania dall’aprile 2005 e presidente della VI Commissione regionale permanente: istruzione e cultura, politica sociale, attività per il tempo libero. È stata componente della Commissione Affari sociali. Attualmente è membro della Commissione Parlamentare Antimafia e della Commissione Cultura e Istruzione. Luisa Bossa, deputato al Parlamento per il Partito Democratico, aderisce alla campagna #menogiornalimenoliberi per salvaguardare il pluralismo dell’informazione e per una riforma urgente dell’intero settore dell’editoria.

Il fondo per l’editoria è ridotto al lumicino e copre poco più del 20% del fabbisogno. Questo ha messo in ginocchio più di 200 testate giornalistiche no profit.

«Negli ultimi tempi siamo costretti a fare i conti con tagli di Bilancio a molti settori della vita pubblica. La cosiddetta spending review attraversa tutti i comparti, e rappresenta una necessità per tenere in ordine i conti e dare stabilità all’economia. Tuttavia, come abbiamo spesso rilevato anche su altre questioni, ci sono settori strategici che hanno una importanza sociale da non sottovalutare. Ci sono implicazioni di varia natura e questo deve spingere ad una riflessione attenta. I tagli vanno fatti ma agli sprechi e alle spese improduttive. Laddove, invece, con i soldi pubblici si erogano servizi fondamentali o si strutturano pezzi di identità democratica e civile, allora un passo indietro può significare un arretramento della qualità del nostro sistema. Il caso del Fondo per l’editoria mi sembra uno di questi. Non si può tagliare pensando a questa come ad una spesa improduttiva. Va vista come una voce indispensabili per la qualità civile».

L’informazione in Italia resterebbe solo nelle mani di quattro gruppi editoriali.

«Quello delle concentrazioni è un tema molto rilevante per la qualità dell’informazione e, aggiungo, della cultura. Si parla in questi giorni, sul fronte dei libri, di un possibile acquisto della Rcs da parte di Mondadori. Nascerebbe un colosso impressionante. Per un verso si capisce il senso: nell’era globalizzata, le aziende o sono grandi o non competono. Ma sui contenuti culturali, la concentrazione non può non preoccupare. Ne va del livello democratico. Il pluralismo delle voci non è una questione economica. Èuna grande questione di cultura democratica».

Se la situazione resta questa queste società saranno costrette a chiudere e in strada andranno circa 3mila giornalisti, senza contare l’indotto. Un peso enorme per lo stato sociale.

«Anche questo è un aspetto da tenere nel giusto conto. Non vorrei che con la mano destra pensassimo a sanare i conti pubblici tagliando il Fondo, e poi con la mano sinistra fossimo costretti a spendere gli stessi soldi per costruire ammortizzatori sociali vari. Sarebbe una incomprensibile schizofrenia. La situazione occupazionale dei giornalisti, poi, nel nostro Paese è una questione vera. Non solo i posti di lavoro che si perdono per l’arretramento della carta stampata, per un web indiscriminato e non sempre di qualità. Ma anche il dilagante precariato che non è solo questione di sfruttamento. Ma anche di indipendenza. Un giornalista vessato è meno autonomo. Questo è un problema della professione, prim’ancora che del professionista».

Nove associazioni di categoria hanno lanciato una campagna per fare pressione sul Governo e approvare una nuova legge sull’editoria.

«Mi auguro che la mobilitazione sortisca effetti positivi. Mi permetto di segnalare che non solo di una nuova normativa si ha bisogno ma anche di una disponibilità a collocare meglio e diversamente le risorse economiche. Si possono trovare varie formule ma è indubbio che lo Stato deve porsi il problema di tutelare un prodotto che non è solo una merce ma è anche un mattone dell’edificio democratico. Ridurre l’informazione e la cultura a merce significa svilirne il senso. Si può non avere mercato ma si continua ad avere senso. Quel senso va difeso perché è lì che si riconosce la democrazia».

È vero che in passato alcuni hanno approfittato di questi fondi, ma su questo ha avuto un peso la politica. È bastato un sistema di controlli adeguato per impedire gli abusi. Le associazioni chiedono controlli ancora più seri che avvengano non a un anno dall’approvazione del bilancio, ma durante la gestione corrente.

«Mi permetto di dire che ci hanno marciato un po’ tutti, non solo la politica. In questo Paese, sulla spesa pubblica, si sono spesso costruiti sprechi e raggiri. Parassitismi vari che hanno fatto pagare al contribuente rendite di posizione. È stato fatto con la politica ma anche con il silenzio complice delle categorie e, infine, anche dei cittadini stessi. Oggi, il vento cambia. È giusto. Più rigore sulla spesa pubblica, più efficienza, più trasparenza, più competizione e meritocrazia. Ma non per questo si deve considerare tutto il sostegno pubblico un abuso. Il sostegno pubblico ha un senso e va difeso come strumento. Poi l’attuazione corretta è responsabilità collettiva».

La carta fondamentale dei diritti dell’Ue impegna ogni Paese a promuovere e garantire la libertà di espressione e di informazione.

«Anche la nostra Carta costituzionale, all’articolo 21, riconosce un’ampia libertà di espressione del pensiero che si traduce in libertà di critica e diritto di cronaca. Non solo. Tutto l’impianto costituzionale, affidando la sovranità al popolo, tutela il diritto ad essere informati. Senza informazione, il popolo come esercita la sovranità? Informazione libera e plurale, quindi, è cardine di democrazia ed è dovere dello Stato».

Secondo una ricerca dell’Università di Oxford l’Italia nel 2014 spende solo 30 cent procapite per la libertà di stampa. In Francia si spendono 18,77 euro a testa, in Gran Bretagna 11,68 euro, in Germania 6,51 euro. In Europa siamo ultimi.

«Non è solo un problema di quanto ma anche di come. Forse dobbiamo spendere di più. Sicuramente dobbiamo spendere meglio. Questi numeri fanno il paio, peraltro, con quanto Francia, Gran Bretagna e Germania investono in musei e cultura. Molto più di noi pur avendo meno di noi. Poi non bisogna meravigliarsi se nelle statistiche del turismo culturali veniamo dopo di loro pur avendo un patrimonio che vale dieci volte tanto. Si raccoglie quello che si semina».

Tutta l’informazione locale è nelle mani delle società cooperative che vivono grazie al fondo pubblico. Senza questi soldi in Campania resterebbe solo il Mattino. Una situazione drammatica.

«Da donna di sinistra mi permetto anche di segnalare come la forma cooperativa è assunzione di responsabilità e garanzia di indipendenza. È autoimpresa. Esattamente quello che oggi ci invitano ripetutamente a fare, anche da ambienti liberisti: inventarsi un lavoro, crearsi un lavoro, superare il lavoro dipendente. Bene, le cooperative lo fanno. Sosteniamole».

Firmerà la nostra petizione su Change.org?

«Lo farò. Ma spero di poter essere utile a questa battaglia anche in Parlamento».

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