Gianni Riotta: «Incentivi per investire su nuove tecnologie e formazione»


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«I contributi pubblici ai giornali? Meglio sussidi per investire su nuove tecnologie e contratti di formazione. Ma se vengono tolti di punto in bianco, si uccidono le testate. E il pluralismo va garantito». Anche Gianni Riotta, giornalista e scrittore, editorialista de La Stampa, interviene sul taglio del fondo all’editoria a cui accedono stampa cooperativa, diocesana e no profit. La sua è una riflessione a tutto tondo sui nuovi mezzi di comunicazione e lo stato di salute del giornalismo in Italia: «I nuovi media snobbano i giornali tradizionali, ma se si continua a storcere il naso di fronte all’innovazione, allora non si va da nessuna parte».

Social network e informazione che arriva ovunque grazie a tablet e smartphone. Una rivoluzione per la comunicazione che solo fino a qualche anno fa sembrava impossibile. Pensa che i giornali sopravviveranno ai nuovi media?

«Se accettano l’innovazione, sì. Se continuano, specie quelli italiani ed europei, a storcere il naso di fronte all’innovazione, no. La vera ricchezza dei giornali devono continuare ad essere i contenuti, è chiaro, ma attraverso più veicoli».

Spesso si pensa che i giornalisti non servano più. Come a dire: basta capitare di fronte a un incidente, riprenderlo col telefonino e postare il tutto su Youtube per diventare reporter. Ma come si protegge l’informazione dai ciarlatani?

«Sul mio profilo twitter, scrivo: new media, old values, nuovi mezzi, vecchi valori. Un modo provocatorio per farsi nemici sia i vecchi che i giovani che pensano di essere giornalisti se sanno usare bene lo smartphone. Ma a chi mi chiede se questi ultimi siano giornalisti, chiedo: vi fareste togliere un dente da me? L’ho imparato su Wikipedia… No: c’è la professionalità del dentista e quella del giornalista. Ma c’è anche una ricchezza di strumenti che tocca a noi coordinare. Se non convinciamo la gente che la nostra è una professionalità, e se qualcuno continuerà a pensare che basta andare su Google per capire cosa accade nel mondo, allora siamo veramente finiti».

Nei territori, i giornali locali garantiscono ancora un valore aggiunto all’informazione, rispetto ai nuovi media secondo lei?

«I giornali locali hanno chance in più rispetto a giornali nazionali. Tutto quello che accade a Ravenna o a Forlì o a Rimini, è difficile trovarlo sui giornali nazionali. Ma il giornalismo locale può comunque creare rete. Insomma, non è che perché sei locale, devi essere retrò».

Non c’è democrazia senza un’opinione pubblica critica. Ed è più facile che l’opinione pubblica critica si formi con più voci a disposizione, quindi col pluralismo dell’informazione. In Italia ci sono tutele a riguardo?

«Al museo del giornalismo a Washington, c’è una mappa del mondo coi Paesi colorati dal rosso al verde secondo la scala di libertà di informazione. La Cina è rossa, Usa e Francia sono verdi. L’Italia è l’unico paese occidentale a essere giallo. Quando ho chiesto il perché, mi hanno risposto tutti nel solito modo: Berlusconi… Il problema nel nostro Paese è che l’Italia è spaccata a metà da trent’anni: quelli di sinistra che dicono che non c’è libertà, e quelli che dicono il contrario. Insomma, si attacca senza ragionare troppo sui difetti».

Il disegno di legge sulla diffamazione in esame alla Camera: niente carcere per chi diffama, ma multe salatissime e rettifiche rigide. Un attentato alla libertà di informazione o ritiene che una riforma sia comunque necessaria?

«Giornalismo non è prendere due carte in Procura e pubblicare tutte le intercettazioni così come si leggono: eppure questo è stato il giornalismo dal 1990 ad oggi. Non sono favorevole a che i giornalisti siano cancellieri di Procura, penso che le inchieste siano un’altra cosa. Sono contro il carcere ai giornalisti ma sono anche contro la calunnia. La lotta ideologica ha prodotto una specie di sottobosco del giornalismo e questo ha rovinato la professione».

La presidenza del Consiglio, a dicembre, ha tagliato in maniera retroattiva i contributi previsti del fondo per l’editoria, al quale attingono l’editoria cooperativa, diocesana e no profit: oggi, per lo più testate locali. È giusto prevedere un sostegno pubblico per questa forma di editoria o è dell’avviso che, in un territorio locale, possano bastare copie vendute e pubblicità a sostenere un giornale?

«Penso in generale che i sussidi a ogni attività economica sono una droga. Creano dipendenza che al momento ti aiuta ma alla lunga ti strozza. Negli anni Ottanta feci una bella battaglia per i soldi alle coop editoriali: però, ecco, sono passati più di 30 anni e non abbiamo sfruttato questo tempo per innovare e oggi ci troviamo in difficoltà. I sussidi non devono esser tolti di punto in bianco sennò un giornale lo ammazzi. Ma porterei i sussidi diretti a sussidi per l’innovazione: supporti tecnologici, contratti di formazione. Insomma, crescere senza essere dipendenti».

(dal Corriere Romagna del 24 gennaio 2015)

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